ISTITUZIONE e STORIA
Le Olimpiadi antiche furono istituite nel 776 a.C. a Olimpia, in Grecia. Esse, come ci ricorda il poeta lirico Pindaro, vissuto in Grecia tra il 500 e il 400 a.C., sono le manifestazioni più importanti tra i cosiddetti “giochi panellenici” (Giochi Olimpici, Istmici, Pitici, Nemei): “Come l'acqua è il più prezioso di tutti gli elementi, come l'oro ha più valore di ogni altro bene, come il sole splende più brillante di ogni altra stella, così splende Olimpia, mettendo in ombra tutti gli altri giochi”.
Vengono tramandate diverse versioni sulla loro origine, sia sul piano storico, sia su quello mitologico.
Relativamente a quello storico, la fonte principale da cui attingere documentazione è Pausania il periegeta, geografo con interessi artistici e antiquari vissuto nella seconda metà del 2° sec d.C., che afferma che i Giochi sono nati in seguito ad un atto politico, ossia all’accordo tra il re dell’Elide, Ifito, e il re di Sparta, Licurgo, per rendere la città di Olimpia un territorio neutrale, sacro e inviolabile; le Olimpiadi sarebbero state il simbolo della tregua politico-militare tra i due re. Tale notizia è riportata anche dallo storico Plutarco, che trova conferma del patto tra i re nell’iscrizione incisa su di un disco bronzeo custodito nel tempio di Hera, nel recinto sacro dell’Altis.
Per quanto riguarda la mitologia, invece, numerose sono le versioni tramandate sull’origine dei Giochi da Pindaro e Pausania. Il poeta, nella prima delle 14 Odi olimpiche, narra il mito di Enomao, re di Pisa d'Elide, che era rappresentato sul frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia. Il sovrano, dal momento che un oracolo gli aveva predetto che sarebbe morto per mano del futuro genero, era determinato a impedire le nozze della figlia Ippodamia; confidando nella superiorità dei cavalli divini che gli erano stati regalati da Fetonte, a ogni pretendente proponeva una corsa di carri da Pisa a Corinto, con il patto che se lo avesse sconfitto avrebbe sposato Ippodamia, in caso contrario sarebbe stato ucciso. Dopo la morte di tredici aspiranti si presentò Pelope, figlio del re frigio Tantalo, alla guida di un carro condotto da cavalli alati, che gli erano stati donati da Poseidone. Scorgendo, però, le teste dei pretendenti sconfitti appese alle porte del palazzo di Enomao, Pelope perse la fiducia nelle proprie possibilità e per essere sicuro di aggiudicarsi la corsa pensò di avvalersi dell'aiuto di Mirtilo, figlio di Ermes e auriga del carro di Enomao, promettendo che gli avrebbe permesso di passare una notte con Ippodamia se lo avesse messo in condizione di vincere la corsa; Mirtilo accettò l'offerta e tolse i perni degli assali del carro di Enomao, sostituendoli con pezzi di cera. Durante la corsa, le ruote si staccarono, il carro si rovesciò ed Enomao morì. Pelope, quindi, vinse la sfida ma, non avendo intenzione di mantenere la promessa fatta a Mirtilo, lo gettò in mare. Mentre moriva, Mirtilo lo maledisse e Pelope, per sfuggire all'anatema, tentò di conciliarsi i favori di Zeus organizzando in suo onore i primi Giochi di Olimpia. Un'altra versione del mito narra che Pelope, dopo aver vinto la sfida con Enomao, sposò Ippodamia e divenne sovrano di Pisa, estendendo il suo dominio su tutta la penisola, cui diede il nome di Peloponneso; alla sua morte fu sepolto nella valle dell'Alfeo, nella località in cui poi sorse la città sacra di Olimpia e, in seguito, in suo onore si sarebbero svolti i primi Giochi Olimpici, con la partecipazione delle tribù della regione. Una terza tradizione attribuisce la fondazione dei Giochi a Eracle, che li avrebbe istituiti per rendere grazie agli dei dopo aver ucciso Augia, re dell'Elide, che gli aveva commissionato la pulitura delle stalle e si era poi rifiutato di pagargli il compenso pattuito; in quella occasione, fu consegnato ai vincitori un ramo d'ulivo, premio che nel simbolismo olimpico sarebbe diventato l'emblema della vittoria.
Le Olimpiadi, per circa quattro secoli furono disputate solo in contesto greco; la partecipazione si allargò solo in seguito, quando cominciò a farsi sentire l’influenza macedone e i Macedoni stessi furono ammessi alle gare, acquistando così il diritto di essere Greci a tutti gli effetti. Il contesto si ampliò ancor più quando i Romani conquistarono la Grecia, ma in contemporanea iniziò anche il processo di decadenza dei Giochi. Eventi salienti furono il tentativo da parte di Silla di spostare le gare a Roma e l’episodio in cui Nerone ritardò addirittura le Olimpiadi di 2 anni per permettere la propria partecipazione: egli conseguì 6 vittorie, in chiave di atleta, ma anche di artista: corsa di carri, quadriga con puledri, concorso per araldi, tragedi, citaredi, tiro a dieci cavalli (67 d.C.). Al popolo conquistatore non piaceva l’agonismo greco: anche Roma ospitava delle gare, i ludi maximi, a cui partecipavano prevalentemente schiavi e persone appartenenti ai ceti più modesti, ma essi avevano come fine divertire gli spettatori e non la vittoria. Inoltre, i Romani criticavano l’atletismo per la sua collocazione esagerata nella scala dei valori sociali; gli atleti, infatti venivano considerati “µόνος καὶ πρώτος”, “πρώτος ἂνθροπος”, godevano di grande fama, vantaggi materiali e privilegi, come statue, il diritto di sedere vicino al re, esenzione dalle tasse, cariche. In questo periodo, per di più, si diffuse sempre maggiormente il professionismo degli atleti: essi venivano, infatti, seguiti da allenatori (“γυμνασταί”) che si basavano su metodi di allenamento scientifici, e si alimentavano in modo sempre più conforme al loro sforzo fisico (aumentò in maniera consistente, per esempio, il consumo di carne). Si verificarono i primi casi di corruzione dovuti alla sete di denaro e di vittoria. Con la diffusione del cristianesimo, poi, le Olimpiadi subirono il loro ultimo colpo: infatti, vennero sempre più aspramente criticate le feste e i riti pagani, in quanto considerati immorali, violenti, ridicoli, assurdi, e le Olimpiadi vennero considerate tali; la loro fine ufficiale risale all’anno 393 d.C., con l’editto antipagano di Costantinopoli emanato da Teodosio I su influenza del Vescovo di Milano Ambrogio.
FUNZIONI e OBIETTIVI
Le Olimpiadi antiche avevano funzioni e obiettivi diversi.
Sicuramente importante è il loro carattere religioso: si parla addirittura di “culto agonistico”, riferendosi all’istituzione delle competizioni letiche a coronamento dei riti religiosi, per rendere più solenni le funzioni; esse, infatti, venivano celebrate in onore di Zeus, vicino al Santuario del dio stesso ad Olimpia. Fondamentale era la loro valenza funebre: servivano a perpetuare il ricordo della figura di Pelope, la cui tomba si trovava appunto nel santuario di Olimpia.
I Giochi avevano poi una funzione politico- culturale. Innanzitutto, erano la principale occasione di aggregazione per i Greci, insieme al teatro, ed erano quindi motivo di rafforzamento dell’identità greca. Rappresentavano, inoltre, un momento di pace o, meglio, di sospensione delle ostilità per il mondo greco, in quanto, durante lo svolgimento della manifestazione, vi era la proclamazione della tregua (“ἐκεχειρία”) da parte dei “messaggeri di pace” (“σπονδόφοροι”): essa sanciva la sacralità del territorio di Olimpia e garantiva il diritto d’asilo per le delegazioni che si dirigevano verso la città; venivano anche imposte delle sanzioni per chi non rispettava tali condizioni. Durante la manifestazione i politici si accordavano, inoltre, per eventuali paci e trattati e venivano pronunciate importanti orazioni politiche ed epidittiche; ce ne sono state tramandate alcune, in frammenti, come per esempio l’Olimpico di Lisia e il Panegirico di Isocrate, famosi oratori del V e IV secolo a.C. Il primo è un esempio di oratoria celebrativa fu scritto tra il 384 e il 388 a.C., durante il periodo di egemonia tebana in seguito alla pace di Antalcida, con cui la Grecia aveva riconosciuto i diritti accampati dal re persiano sulle città greche della costa asiatica dell’Egeo, con il fine di incitare i Greci a scalzare dal potere Dionisio di Siracusa, iniziando le ostilità proprio ad Olimpia, contro gli inviati del tiranno; Dionigi di Alicarnasso ci ha riportato l’incipit, in cui l’oratore sottolinea la necessità della concordia fra le città Greche, perché l’eccessiva litigiosità avvantaggia l’espansione persiana, e l’appello a Sparta perché guidi una reazione unitaria contro il Persiani. Il secondo è un esempio di oratoria politica ed è stato pubblicato in occasione dell’Olimpiade del 380 a.C., dopo una composizione durata 15 anni. Isocrate considera la concordia necessaria tra le città Greche per sconfiggere lo storico nemico persiano; Atene avrebbe dovuto assumere, secondo il retore, il ruolo di città guida della Grecia per contrastare la Persia, in quanto prima città culturale della Grecia, e attaccare immediatamente il nemico, abolendo così, in caso di vittoria, la pace di Antalcida, ritenuta vergognosa. Il discorso si conclude quindi con un’ esaltazione della Grecia e, in particolare, di Atene. Isocrate sottolinea, inoltre, l’inferiorità dei barbari per qualificare come atto d’insostenibile arroganza la pretesa della Persia di dominare su una metà del mondo a dispetto dei Greci.
Incipit dell’ “Olimpico” di Lisia, 1-9 (traduzione di E. Medda)
Sono molte le imprese illustri per cui Eracle merita il nostro ricordo, signori, e, tra esse, c’è il fatto che per primo ha istituito questa competizione, mosso dall’amore che nutriva per la Grecia. A quel tempo le città si guardavano reciprocamente con ostilità; ma egli, dopo aver posto fine alle tirannie e aver impedito i soprusi, istituì una competizione ginnica, una gara di ricchezza e una dimostrazione di intelligenza nella parte più bella della Grecia, al fine di farci radunare tutti in un solo luogo per assistere a tutto ciò, come spettatori e come ascoltatori: Eracle, infatti, pensò che questa riunione sarebbe stata per i Greci il principio dell’amicizia reciproca. Questo era il suo proposito iniziale, e io oggi non sono venuto qui per parlare di sciocchezze né per giocare con le parole. Queste cose penso siano degne di sofisti futili che hanno bisogno di sbarcare il lunario, mentre credo che il compito di un uomo onesto e di un cittadino di valore sia di esprimere pareri sulle questioni di massima importanza, vedendo la Grecia ridotta in una condizione così vergognosa, gran parte del suo territorio caduto nelle mani del barbaro e molte città sovvertite per mano di tiranni. Se almeno tutto questo fosse la conseguenza della nostra debolezza, dovremmo necessariamente adattarci alla nostra sorte; ma poiché, invece, tutto è causato dalla discordia e dalla rivalità reciproca, non si deve forse mettere fine all’una e cercare di frenare l’altra, consapevoli che il desiderio di prevalere si addice agli stati che prosperano, mentre per chi si trova nella nostra situazione valgono meglio i buoni consigli? I pericoli, lo vediamo, sono grandi e incombono da ogni parte: sapete che l’egemonia sta nelle mani di chi domina il mare , che le ricchezze sono dispensate dal Re, e che i soldati greci sono a disposizione di chi può spendere, mentre anche il re si è procurato numerose navi, e così anche il tiranno di Sicilia. Perciò dobbiamo smetterla una buona volta con la guerra tra noi, e dobbiamo assicurarci la salvezza con l’unanimità di intenti; dobbiamo provare vergogna del passato e timore per ciò che accadrà, e metterci in competizione con i nostri antenati, che fecero sì che i barbari, che aspiravano a impadronirsi della terra altrui, perdessero la propria, e, cacciati i tiranni, fondarono la libertà comune per tutti. Mi meraviglio soprattutto degli Spartani: qual è il disegno in base al quale sopportano di vedere la Grecia in fiamme, proprio loro che non a torto ne sono gli egemoni, sia per il loro valore innato sia per la loro esperienza bellica, i soli che dimorano nella loro città senza aver mai subito un saccheggio, senza mura, senza discordie interne e senza aver mai subito una sconfitta, sempre seguendo le medesime istituzioni? Per questi motivi c’è speranza che la libertà che hanno ottenuto sia imperitura e che, dopo essere stati i salvatori della Grecia nei momenti di pericolo del passato, si preoccupino anche di quelli futuri. Non si presenterà certamente un’occasione migliore di questa: noi dobbiamo considerare le sventure di chi è caduto nella rovina non estranee, ma nostre, e non dobbiamo attendere finchè le potenze riunite di entrambi si rivolgeranno contro di noi, ma porre fine alla loro arroganza finchè siamo in tempo. Chi dunque potrebbe non provare sdegno, vedendo che essi son divenuti potenti grazie alla nostra guerra intestina? Quelle lotte, non solo vergognose ma anche pericolose, hanno dato a chi ci ha fatto gravi torti la possibilità di fare quel che ha fatto, mentre i Greci non hanno potuto vendicarsi in alcun modo.
"Panegirico" di Isocrate, 179-184 (traduzione di R. Romussi)
Sì, penso che dicendo quello che sto per dire riuscirò a dimostrare ancora più chiaramente in quale dispregio siamo stati tenuti noi e quale realizzazione delle proprie mire imperialistiche è stata concessa al Re. Tutta la terra che sta sotto il cielo è divisa in due parti, chiamate l’una Asia, l’altra Europa: lui con questo trattato se ne è presa metà, come se dividesse il mondo con Zeus invece di stipulare il trattato con degli uomini. E ci ha obbligato a scrivere questo trattato su stele di marmo e a metterlo nei santuari panellenici, trofeo molto più bello di quelli elevati in battaglia: essi infatti celebrano piccole imprese e un solo successo, questo invece è stato innalzato come monumento di vittoria di tutta la guerra contro tutta la Grecia. Dobbiamo sdegnarci per tutto ciò, e cercare il modo di vendicarci del passato e migliorare il nostro futuro. È vergognoso pretendere di utilizzare i barbari come servi nelle nostre case, mentre come Stato permettiamo che tanti nostri alleati siano loro schiavi. È una vergogna soprattutto se pensiamo ai Greci dei tempi di Troia, che per il rapimento di una sola donna si indignarono tutti, solidali con chi era stato oltraggiato, e combatterono fino alla distruzione della città che aveva dato i natali al colpevole: noi invece, ora che l’intera Grecia ha subito onta e violenza, non ne abbiamo preso alcuna vendetta tutti insieme, anche se potevamo ottenere dei risultati degni dei migliori auspici. Infatti solo questa guerra vale più della pace, perché assomiglia ad una processione panellenica più che a una spedizione militare ed è vantaggiosa sia per chi vuole restare tranquillo, sia per chi vuole combattere: i primi potranno godersi senza paura i loro territori, i secondi potranno arricchirsi enormemente con quelli altrui. Se si considerano bene i molti aspetti della cosa, si può vedere che questa impresa ci porta più di ogni altra l’utile cui noi miriamo. Infatti a chi mai deve fare guerra un popolo che non ha mire imperialistiche, ma ambisce soltanto la giustizia? A chi, se non a quelli che già prima hanno oltraggiato la Grecia e ancora la minacciano, nostri eterni nemici? Contro chi deve giustamente nutrire sentimenti di rivalsa un popolo che non è del tutto privo di coraggio, ma ne ha quanto basta, se non contro quelli che si ammantano di un potere troppo grande per degli esseri umani, e meriterebbero ancor meno di quanto possiedono da noi i miserabili? Contro chi
deve condurre una spedizione un popolo che vuole rispettare la religione, ma anche il proprio interesse? Non forse contro dei nemici naturali ed ereditari, che possiedono, sì, una quantità di beni, ma che non sono in grado di difenderli? Questi sono i Persiani, e lo sapete
bene.
Le Olimpiadi antiche avevano funzioni e obiettivi diversi.
Sicuramente importante è il loro carattere religioso: si parla addirittura di “culto agonistico”, riferendosi all’istituzione delle competizioni letiche a coronamento dei riti religiosi, per rendere più solenni le funzioni; esse, infatti, venivano celebrate in onore di Zeus, vicino al Santuario del dio stesso ad Olimpia. Fondamentale era la loro valenza funebre: servivano a perpetuare il ricordo della figura di Pelope, la cui tomba si trovava appunto nel santuario di Olimpia.
I Giochi avevano poi una funzione politico- culturale. Innanzitutto, erano la principale occasione di aggregazione per i Greci, insieme al teatro, ed erano quindi motivo di rafforzamento dell’identità greca. Rappresentavano, inoltre, un momento di pace o, meglio, di sospensione delle ostilità per il mondo greco, in quanto, durante lo svolgimento della manifestazione, vi era la proclamazione della tregua (“ἐκεχειρία”) da parte dei “messaggeri di pace” (“σπονδόφοροι”): essa sanciva la sacralità del territorio di Olimpia e garantiva il diritto d’asilo per le delegazioni che si dirigevano verso la città; venivano anche imposte delle sanzioni per chi non rispettava tali condizioni. Durante la manifestazione i politici si accordavano, inoltre, per eventuali paci e trattati e venivano pronunciate importanti orazioni politiche ed epidittiche; ce ne sono state tramandate alcune, in frammenti, come per esempio l’Olimpico di Lisia e il Panegirico di Isocrate, famosi oratori del V e IV secolo a.C. Il primo è un esempio di oratoria celebrativa fu scritto tra il 384 e il 388 a.C., durante il periodo di egemonia tebana in seguito alla pace di Antalcida, con cui la Grecia aveva riconosciuto i diritti accampati dal re persiano sulle città greche della costa asiatica dell’Egeo, con il fine di incitare i Greci a scalzare dal potere Dionisio di Siracusa, iniziando le ostilità proprio ad Olimpia, contro gli inviati del tiranno; Dionigi di Alicarnasso ci ha riportato l’incipit, in cui l’oratore sottolinea la necessità della concordia fra le città Greche, perché l’eccessiva litigiosità avvantaggia l’espansione persiana, e l’appello a Sparta perché guidi una reazione unitaria contro il Persiani. Il secondo è un esempio di oratoria politica ed è stato pubblicato in occasione dell’Olimpiade del 380 a.C., dopo una composizione durata 15 anni. Isocrate considera la concordia necessaria tra le città Greche per sconfiggere lo storico nemico persiano; Atene avrebbe dovuto assumere, secondo il retore, il ruolo di città guida della Grecia per contrastare la Persia, in quanto prima città culturale della Grecia, e attaccare immediatamente il nemico, abolendo così, in caso di vittoria, la pace di Antalcida, ritenuta vergognosa. Il discorso si conclude quindi con un’ esaltazione della Grecia e, in particolare, di Atene. Isocrate sottolinea, inoltre, l’inferiorità dei barbari per qualificare come atto d’insostenibile arroganza la pretesa della Persia di dominare su una metà del mondo a dispetto dei Greci.
Incipit dell’ “Olimpico” di Lisia, 1-9 (traduzione di E. Medda)
Sono molte le imprese illustri per cui Eracle merita il nostro ricordo, signori, e, tra esse, c’è il fatto che per primo ha istituito questa competizione, mosso dall’amore che nutriva per la Grecia. A quel tempo le città si guardavano reciprocamente con ostilità; ma egli, dopo aver posto fine alle tirannie e aver impedito i soprusi, istituì una competizione ginnica, una gara di ricchezza e una dimostrazione di intelligenza nella parte più bella della Grecia, al fine di farci radunare tutti in un solo luogo per assistere a tutto ciò, come spettatori e come ascoltatori: Eracle, infatti, pensò che questa riunione sarebbe stata per i Greci il principio dell’amicizia reciproca. Questo era il suo proposito iniziale, e io oggi non sono venuto qui per parlare di sciocchezze né per giocare con le parole. Queste cose penso siano degne di sofisti futili che hanno bisogno di sbarcare il lunario, mentre credo che il compito di un uomo onesto e di un cittadino di valore sia di esprimere pareri sulle questioni di massima importanza, vedendo la Grecia ridotta in una condizione così vergognosa, gran parte del suo territorio caduto nelle mani del barbaro e molte città sovvertite per mano di tiranni. Se almeno tutto questo fosse la conseguenza della nostra debolezza, dovremmo necessariamente adattarci alla nostra sorte; ma poiché, invece, tutto è causato dalla discordia e dalla rivalità reciproca, non si deve forse mettere fine all’una e cercare di frenare l’altra, consapevoli che il desiderio di prevalere si addice agli stati che prosperano, mentre per chi si trova nella nostra situazione valgono meglio i buoni consigli? I pericoli, lo vediamo, sono grandi e incombono da ogni parte: sapete che l’egemonia sta nelle mani di chi domina il mare , che le ricchezze sono dispensate dal Re, e che i soldati greci sono a disposizione di chi può spendere, mentre anche il re si è procurato numerose navi, e così anche il tiranno di Sicilia. Perciò dobbiamo smetterla una buona volta con la guerra tra noi, e dobbiamo assicurarci la salvezza con l’unanimità di intenti; dobbiamo provare vergogna del passato e timore per ciò che accadrà, e metterci in competizione con i nostri antenati, che fecero sì che i barbari, che aspiravano a impadronirsi della terra altrui, perdessero la propria, e, cacciati i tiranni, fondarono la libertà comune per tutti. Mi meraviglio soprattutto degli Spartani: qual è il disegno in base al quale sopportano di vedere la Grecia in fiamme, proprio loro che non a torto ne sono gli egemoni, sia per il loro valore innato sia per la loro esperienza bellica, i soli che dimorano nella loro città senza aver mai subito un saccheggio, senza mura, senza discordie interne e senza aver mai subito una sconfitta, sempre seguendo le medesime istituzioni? Per questi motivi c’è speranza che la libertà che hanno ottenuto sia imperitura e che, dopo essere stati i salvatori della Grecia nei momenti di pericolo del passato, si preoccupino anche di quelli futuri. Non si presenterà certamente un’occasione migliore di questa: noi dobbiamo considerare le sventure di chi è caduto nella rovina non estranee, ma nostre, e non dobbiamo attendere finchè le potenze riunite di entrambi si rivolgeranno contro di noi, ma porre fine alla loro arroganza finchè siamo in tempo. Chi dunque potrebbe non provare sdegno, vedendo che essi son divenuti potenti grazie alla nostra guerra intestina? Quelle lotte, non solo vergognose ma anche pericolose, hanno dato a chi ci ha fatto gravi torti la possibilità di fare quel che ha fatto, mentre i Greci non hanno potuto vendicarsi in alcun modo.
"Panegirico" di Isocrate, 179-184 (traduzione di R. Romussi)
Sì, penso che dicendo quello che sto per dire riuscirò a dimostrare ancora più chiaramente in quale dispregio siamo stati tenuti noi e quale realizzazione delle proprie mire imperialistiche è stata concessa al Re. Tutta la terra che sta sotto il cielo è divisa in due parti, chiamate l’una Asia, l’altra Europa: lui con questo trattato se ne è presa metà, come se dividesse il mondo con Zeus invece di stipulare il trattato con degli uomini. E ci ha obbligato a scrivere questo trattato su stele di marmo e a metterlo nei santuari panellenici, trofeo molto più bello di quelli elevati in battaglia: essi infatti celebrano piccole imprese e un solo successo, questo invece è stato innalzato come monumento di vittoria di tutta la guerra contro tutta la Grecia. Dobbiamo sdegnarci per tutto ciò, e cercare il modo di vendicarci del passato e migliorare il nostro futuro. È vergognoso pretendere di utilizzare i barbari come servi nelle nostre case, mentre come Stato permettiamo che tanti nostri alleati siano loro schiavi. È una vergogna soprattutto se pensiamo ai Greci dei tempi di Troia, che per il rapimento di una sola donna si indignarono tutti, solidali con chi era stato oltraggiato, e combatterono fino alla distruzione della città che aveva dato i natali al colpevole: noi invece, ora che l’intera Grecia ha subito onta e violenza, non ne abbiamo preso alcuna vendetta tutti insieme, anche se potevamo ottenere dei risultati degni dei migliori auspici. Infatti solo questa guerra vale più della pace, perché assomiglia ad una processione panellenica più che a una spedizione militare ed è vantaggiosa sia per chi vuole restare tranquillo, sia per chi vuole combattere: i primi potranno godersi senza paura i loro territori, i secondi potranno arricchirsi enormemente con quelli altrui. Se si considerano bene i molti aspetti della cosa, si può vedere che questa impresa ci porta più di ogni altra l’utile cui noi miriamo. Infatti a chi mai deve fare guerra un popolo che non ha mire imperialistiche, ma ambisce soltanto la giustizia? A chi, se non a quelli che già prima hanno oltraggiato la Grecia e ancora la minacciano, nostri eterni nemici? Contro chi deve giustamente nutrire sentimenti di rivalsa un popolo che non è del tutto privo di coraggio, ma ne ha quanto basta, se non contro quelli che si ammantano di un potere troppo grande per degli esseri umani, e meriterebbero ancor meno di quanto possiedono da noi i miserabili? Contro chi
deve condurre una spedizione un popolo che vuole rispettare la religione, ma anche il proprio interesse? Non forse contro dei nemici naturali ed ereditari, che possiedono, sì, una quantità di beni, ma che non sono in grado di difenderli? Questi sono i Persiani, e lo sapete
bene.
ORGANIZZAZIONE
Le Olimpiadi venivano organizzate ogni quattro anni tra i mesi di Apollonio e Partenio, in estate, in modo che il terzo giorno, quello centrale, desse con il secondo o terzo plenilunio dopo il solstizio d’estate. Alcuni mesi prima, degli ambasciatori, chiamati “σπονδόφοροι”, annunciavano in tutta la Grecia l’inizio delle feste, mentre un mese prima gli atleti dovevano trovarsi a Elide: a questo punto essi potevano ancora rinunciare alla partecipazione. Da questo momento gli atleti venivano tenuti sotto una stretta sorveglianza, anche per quanto concerne l’alimentazione: la loro dieta prevedeva, infatti, un consumo di pane, fichi, formaggio e carne. In seguito giungevano ad Olimpia anche i famigliari degli atleti e i loro allenatori, oltre alle rappresentanze ufficiali delle πόλειϛ, che si accampavano in tende. Gli atleti godevano, invece, del privilegio di poter alloggiare nel “Λεονιδάιον”, un edificio, costruito negli anni 330- 350 a.C., quasi quadrato (80 metri x 74), costituito da una corte centrale circondata da un peristilio di quarantaquattro colonne doriche su tutti e quattro i lati; il lato ovest era il più grande rispetto agli altri e ospitava le camere più vaste, forse addirittura disposte su due piani; all’esterno dell’edificio correva un colonnato continuo di centotrentotto colonne ioniche. A Olimpia convergevano poi anche oratori, letterati, musici e politici. Altre figure importanti erano gli “θεόκολοι”, che organizzavano riti religiosi e sacrifici, gestivano i templi ed erano i soli autorizzati a risiedere nel santuario olimpico, gli araldi, ossia gli annunciatori ufficiali, e i giudici; avevano questa funzione sia i cosiddetti ellanodici sia il Gran Consiglio, la “βουλή.” I primi indossavano tuniche di porpora e corone di foglie d’ulivo, siedevano in una tribuna riservata ed erano divisi in tre collegi; essi conoscevano perfettamente le regole olimpiche, dal momento che erano sottoposti al un lungo e faticoso tirocinio, e avevano il compito di verificare l’idoneità degli atleti e di far rispettare le norme che disciplinavamo lo svolgimento dei Giochi Olimpici; sono ricordati per la loro incorruttibilità, ad eccezione dell’episodio di Nerone. Il secondo, invece, era formato da membri che risiedevano a Olimpia, eletti per un quadriennio; custodiva le regole delle competizioni e aveva competenze amministrative; era, inoltre, una giuria di appello contro le decisioni dei giudici. Le sanzioni principali consistevano nell’espulsione dai giochi, in sanzioni pecuniarie e in pene corporali.
Per quanto riguarda il programma delle gare, durante le prime tredici Olimpiadi gli atleti si cimentarono in un’unica gara, lo stadion, e quindi la manifestazione durava un solo giorno; successivamente, in seguito all’inserimento di altre gare, la durata delle Olimpiadi crebbe a cinque/sei giorni. Il tutto iniziava con un corteo da Elide verso Olimpia di due giorni. Il terzo giorno il corteo entrava ad Olimpia e, presso il recinto dell’Altis e la statua di Zeus, celebrava sacrifici e pregava; si teneva poi il giuramento degli atleti, l’ὠρκός: essi dichiaravano di avere i prerequisiti per l’ammissione alle gare e di essersi allenati per 10 mesi, nel rispetto delle regole; seguiva a ciò l’ecatombe, ossia un sacrificio di cento buoi. In seguito, venivano sorteggiati gli atleti per la composizione dei turni eliminatori. Si disputavano poi le gare: lo stadion, gara di corsa veloce di lunghezza corrispondente a quella dello stadio (a Olimpia 192,27 metri), il diaulos (1200 piedi, 400 metri circa di lunghezza), il dolichos (da 7 a 24 stadi, da 1500 a 5000 m circa), la lotta, il pentathlon (corsa, salto in lungo, lancio del giavellotto, lancio del disco e lotta), il pugilato, gli agoni ippici, il pancrazio (una combinazione di lotta e pugilato senza esclusione di colpi, l’oplitodromia, ossia la corsa con le armi. Ruolo fondamentale svolgeva anche la corsa con il carro, che si svolgeva su una pista nettamente più lunga di uno stadion e prevedeva più giri di essa attorno a delle mete. Venivano in seguito premiati i vincitori con una corona di ulivo e ghirlanda, gli atleti facevano il giro dello stadio e veniva, infine, eletto l’atleta eponimo, che dava cioè il nome all’Olimpiade. La manifestazione si concludeva con sontuosi banchetti, in seguito ai quali iniziava il viaggio di ritorno per tutti coloro che erano convenuti ad Olimpia.
Le Olimpiadi venivano organizzate ogni quattro anni tra i mesi di Apollonio e Partenio, in estate, in modo che il terzo giorno, quello centrale, desse con il secondo o terzo plenilunio dopo il solstizio d’estate. Alcuni mesi prima, degli ambasciatori, chiamati “σπονδόφοροι”, annunciavano in tutta la Grecia l’inizio delle feste, mentre un mese prima gli atleti dovevano trovarsi a Elide: a questo punto essi potevano ancora rinunciare alla partecipazione. Da questo momento gli atleti venivano tenuti sotto una stretta sorveglianza, anche per quanto concerne l’alimentazione: la loro dieta prevedeva, infatti, un consumo di pane, fichi, formaggio e carne. In seguito giungevano ad Olimpia anche i famigliari degli atleti e i loro allenatori, oltre alle rappresentanze ufficiali delle πόλειϛ, che si accampavano in tende. Gli atleti godevano, invece, del privilegio di poter alloggiare nel “Λεονιδάιον”, un edificio, costruito negli anni 330- 350 a.C., quasi quadrato (80 metri x 74), costituito da una corte centrale circondata da un peristilio di quarantaquattro colonne doriche su tutti e quattro i lati; il lato ovest era il più grande rispetto agli altri e ospitava le camere più vaste, forse addirittura disposte su due piani; all’esterno dell’edificio correva un colonnato continuo di centotrentotto colonne ioniche. A Olimpia convergevano poi anche oratori, letterati, musici e politici. Altre figure importanti erano gli “θεόκολοι”, che organizzavano riti religiosi e sacrifici, gestivano i templi ed erano i soli autorizzati a risiedere nel santuario olimpico, gli araldi, ossia gli annunciatori ufficiali, e i giudici; avevano questa funzione sia i cosiddetti ellanodici sia il Gran Consiglio, la “βουλή.” I primi indossavano tuniche di porpora e corone di foglie d’ulivo, siedevano in una tribuna riservata ed erano divisi in tre collegi; essi conoscevano perfettamente le regole olimpiche, dal momento che erano sottoposti al un lungo e faticoso tirocinio, e avevano il compito di verificare l’idoneità degli atleti e di far rispettare le norme che disciplinavamo lo svolgimento dei Giochi Olimpici; sono ricordati per la loro incorruttibilità, ad eccezione dell’episodio di Nerone. Il secondo, invece, era formato da membri che risiedevano a Olimpia, eletti per un quadriennio; custodiva le regole delle competizioni e aveva competenze amministrative; era, inoltre, una giuria di appello contro le decisioni dei giudici. Le sanzioni principali consistevano nell’espulsione dai giochi, in sanzioni pecuniarie e in pene corporali.
Per quanto riguarda il programma delle gare, durante le prime tredici Olimpiadi gli atleti si cimentarono in un’unica gara, lo stadion, e quindi la manifestazione durava un solo giorno; successivamente, in seguito all’inserimento di altre gare, la durata delle Olimpiadi crebbe a cinque/sei giorni. Il tutto iniziava con un corteo da Elide verso Olimpia di due giorni. Il terzo giorno il corteo entrava ad Olimpia e, presso il recinto dell’Altis e la statua di Zeus, celebrava sacrifici e pregava; si teneva poi il giuramento degli atleti, l’ὠρκός: essi dichiaravano di avere i prerequisiti per l’ammissione alle gare e di essersi allenati per 10 mesi, nel rispetto delle regole; seguiva a ciò l’ecatombe, ossia un sacrificio di cento buoi. In seguito, venivano sorteggiati gli atleti per la composizione dei turni eliminatori. Si disputavano poi le gare: lo stadion, gara di corsa veloce di lunghezza corrispondente a quella dello stadio (a Olimpia 192,27 metri), il diaulos (1200 piedi, 400 metri circa di lunghezza), il dolichos (da 7 a 24 stadi, da 1500 a 5000 m circa), la lotta, il pentathlon (corsa, salto in lungo, lancio del giavellotto, lancio del disco e lotta), il pugilato, gli agoni ippici, il pancrazio (una combinazione di lotta e pugilato senza esclusione di colpi, l’oplitodromia, ossia la corsa con le armi. Ruolo fondamentale svolgeva anche la corsa con il carro, che si svolgeva su una pista nettamente più lunga di uno stadion e prevedeva più giri di essa attorno a delle mete. Venivano in seguito premiati i vincitori con una corona di ulivo e ghirlanda, gli atleti facevano il giro dello stadio e veniva, infine, eletto l’atleta eponimo, che dava cioè il nome all’Olimpiade. La manifestazione si concludeva con sontuosi banchetti, in seguito ai quali iniziava il viaggio di ritorno per tutti coloro che erano convenuti ad Olimpia.
FIGURA DELL’ATLETA
Senza dubbio, i protagonisti della manifestazione erano gli atleti. Essi appartenevano all’elite sociale: erano, infatti, tutti aristocratici, dal momento che necessitavano di molto tempo libero e dovevano pagarsi degli allenatori privati; tuttavia, ci furono casi in cui dei benefattori contribuirono al pagamento di maestri e istruttori per chi non fosse di estrazione sociale elevata. L’etica dell’atleta era fondata sulla fatica (“πόνος”), sul coraggio (“ἀνδρεία”) e sulla resistenza (“καρτερία”); era, dunque, necessario che gli atleti avessero un complesso di qualità fisiche e morali. L’atleta mirava unicamente alla vittoria e al successo individuale; solo in questo modo era possibile che si eternasse la sua fama (“κλέος”); egli, infatti, era considerato “baciato dalla buona sorte” (“ὂλβιος”): questo epiteto aveva anche valenza religiosa. Gli atleti, inoltre, erano considerati degli eroi e grazie a loro la comunità poteva festeggiare il trionfo della vita sulla morte. Essi, insomma, impersonavano il concetto greco del “καλός κʹἀγαθός”, letteralmente “bello e buono”, che metteva in diretta relazione la sfera etica e quella estetica della persona. Come ci ricorda Pindaro, (Olimpica I, 95- 101), infatti, “è là, ad Olimpia, che si affrontano i corridori più veloci, là che si giudicano la forza, il valore, la resistenza alle fatiche. E il vincitore, per il resto della sua vita, conosce la felicità e la gioia. È una gioia che si trasmette nel tempo, nei giorni: è la gloria, bene supremo per gli uomini”. Scrive ancora il poeta (Olimpica VIII, Ode 69, 86-87) che il secondo classificato avrebbe patito come tutti gli altri un “odioso ritorno a casa e una fama non gloriosa” e i non vincitori “lungo i vicoli, scansando i nemici, sono mortificati e colpiti dalla sfortuna”. Per partecipare alle gare, bisognava avere determinati prerequisiti, ossia essere di pura discendenza greca, di condizione libera e figli di Greci liberi, iscritti alle liste civiche e immuni da condanne penali; obbligatorio era poi un periodo preparatorio di un mese nel ginnasio di Elis. Gli atleti gareggiavano in un primo tempo con un gonnellino succinto stretto da una cintura, in seguito nudi; i vincitori ricevevano in premio una corona di olivo selvaggio composta di rami del santuario di Zeus; non erano previsti vantaggi economici, ma numerosi premi onorifici, tra cui il privilegio di iscrivere il proprio nome nella lista dei vincitori, di erigere una propria statua, di sfilare su di un carro da parata attraverso la propria città nel momento del rientro in patria, di erigere il proprio ritratto in luoghi pubblici, in banchetti sacri e in ginnasi o palestre, di essere mantenuti a spese dello stato, di avere posti riservati a teatro. Il loro ricordo dei più famosi atleti è stato tramandato ai posteri anche grazie all’epinicio, un genere letterario nato nel VI secolo, dedicato esclusivamente ai vincitori sportivi; questa forma di poesia corale celebrativa veniva declamata durante i festeggiamenti in occasione del ritorno in patria o, più raramente, sul terreno di gara. Non esaltava solo gli atleti, ma anche la loro stirpe e la loro patria: l’evento sportivo veniva descritto solo brevemente e il vincitore era elevato in una sfera sovrumana di racconti mitologici. Infine, bisogna sottolineare che gli atleti erano esclusivamente uomini; alle donne, infatti, non era permesso né assistere né partecipare ai giochi, eccetto come proprietarie di cavalli nelle corse con i carri. Sono solo tre i casi di vittorie femminili in quest’ultimo caso a noi noti.
Numerose sono le raffigurazioni di atleti nell’arte antica; le due più celebri sono il Discobolo di Milone e il Diadumeno di Policleto. Il Discobolo risale al 450 a.C. ed è una statua raffigurante un atleta impegnato nel lancio del disco, nel momento di massima tensione che precede l’azione. L’atleta tiene, infatti, alzato il braccio con cui sta per lanciare; il peso del corpo allenato poggia tutto sulla gamba destra piegata, con il piede ben saldato a terra, mentre la gamba sinistra, più arretrata, asseconda il movimento. Il tronco compie una potente torsione a destra, le armoniose braccia sono distese a formare un arco che dalla mano sinistra, poggiata sul ginocchio destro, passa per le spalle, terminando nel disco sollevato in alto dalla mano destra; il capo dai capelli corti e ricciuti è rivolto verso il braccio che lancia. Tutto ciò forma una costruzione geometrica, che raffigura un semicerchio e un doppio triangolo; il volto esprime, invece, misurata e tenue concentrazione, determinazione e intelligenza; è stato però fortemente criticato da Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia”. Pecca della statua è la concezione esclusivamente frontale: guardato di profilo, il corpo risulta eccessivamente schiacciato su un unico piano; novità sul piano scultoreo è, invece, il mutamento della concezione di equilibrio, dal momento che non vengono più eliminate le forze e le tensioni, ma vengono controllate attraverso un equilibrio di forze uguali e contrarie. Il Diadumeno è, invece, una statua del 430/425 a.C. e raffigura un atleta che si stringe una benda, la tenia, intorno alle chiome dopo la vittoria di una gara; peculiari sono la geometrizzazione figura, la sua accurata ponderazione e la struttura chiastica. Le braccia allargate tengono i due capi del nastro e nel volto vi è ricercata riflessività; il baricentro della figura, inoltre, cade al centro delle gambe e il dinamismo trattenuto annulla ogni impressione di staticità. La statua non è più un oggetto frontale, ma un volume che si articola e si muove in tutto il suo spazio tridimensionale.
Senza dubbio, i protagonisti della manifestazione erano gli atleti. Essi appartenevano all’elite sociale: erano, infatti, tutti aristocratici, dal momento che necessitavano di molto tempo libero e dovevano pagarsi degli allenatori privati; tuttavia, ci furono casi in cui dei benefattori contribuirono al pagamento di maestri e istruttori per chi non fosse di estrazione sociale elevata. L’etica dell’atleta era fondata sulla fatica (“πόνος”), sul coraggio (“ἀνδρεία”) e sulla resistenza (“καρτερία”); era, dunque, necessario che gli atleti avessero un complesso di qualità fisiche e morali. L’atleta mirava unicamente alla vittoria e al successo individuale; solo in questo modo era possibile che si eternasse la sua fama (“κλέος”); egli, infatti, era considerato “baciato dalla buona sorte” (“ὂλβιος”): questo epiteto aveva anche valenza religiosa. Gli atleti, inoltre, erano considerati degli eroi e grazie a loro la comunità poteva festeggiare il trionfo della vita sulla morte. Essi, insomma, impersonavano il concetto greco del “καλός κʹἀγαθός”, letteralmente “bello e buono”, che metteva in diretta relazione la sfera etica e quella estetica della persona. Come ci ricorda Pindaro, (Olimpica I, 95- 101), infatti, “è là, ad Olimpia, che si affrontano i corridori più veloci, là che si giudicano la forza, il valore, la resistenza alle fatiche. E il vincitore, per il resto della sua vita, conosce la felicità e la gioia. È una gioia che si trasmette nel tempo, nei giorni: è la gloria, bene supremo per gli uomini”. Scrive ancora il poeta (Olimpica VIII, Ode 69, 86-87) che il secondo classificato avrebbe patito come tutti gli altri un “odioso ritorno a casa e una fama non gloriosa” e i non vincitori “lungo i vicoli, scansando i nemici, sono mortificati e colpiti dalla sfortuna”. Per partecipare alle gare, bisognava avere determinati prerequisiti, ossia essere di pura discendenza greca, di condizione libera e figli di Greci liberi, iscritti alle liste civiche e immuni da condanne penali; obbligatorio era poi un periodo preparatorio di un mese nel ginnasio di Elis. Gli atleti gareggiavano in un primo tempo con un gonnellino succinto stretto da una cintura, in seguito nudi; i vincitori ricevevano in premio una corona di olivo selvaggio composta di rami del santuario di Zeus; non erano previsti vantaggi economici, ma numerosi premi onorifici, tra cui il privilegio di iscrivere il proprio nome nella lista dei vincitori, di erigere una propria statua, di sfilare su di un carro da parata attraverso la propria città nel momento del rientro in patria, di erigere il proprio ritratto in luoghi pubblici, in banchetti sacri e in ginnasi o palestre, di essere mantenuti a spese dello stato, di avere posti riservati a teatro. Il loro ricordo dei più famosi atleti è stato tramandato ai posteri anche grazie all’epinicio, un genere letterario nato nel VI secolo, dedicato esclusivamente ai vincitori sportivi; questa forma di poesia corale celebrativa veniva declamata durante i festeggiamenti in occasione del ritorno in patria o, più raramente, sul terreno di gara. Non esaltava solo gli atleti, ma anche la loro stirpe e la loro patria: l’evento sportivo veniva descritto solo brevemente e il vincitore era elevato in una sfera sovrumana di racconti mitologici. Infine, bisogna sottolineare che gli atleti erano esclusivamente uomini; alle donne, infatti, non era permesso né assistere né partecipare ai giochi, eccetto come proprietarie di cavalli nelle corse con i carri. Sono solo tre i casi di vittorie femminili in quest’ultimo caso a noi noti.
Numerose sono le raffigurazioni di atleti nell’arte antica; le due più celebri sono il Discobolo di Milone e il Diadumeno di Policleto. Il Discobolo risale al 450 a.C. ed è una statua raffigurante un atleta impegnato nel lancio del disco, nel momento di massima tensione che precede l’azione. L’atleta tiene, infatti, alzato il braccio con cui sta per lanciare; il peso del corpo allenato poggia tutto sulla gamba destra piegata, con il piede ben saldato a terra, mentre la gamba sinistra, più arretrata, asseconda il movimento. Il tronco compie una potente torsione a destra, le armoniose braccia sono distese a formare un arco che dalla mano sinistra, poggiata sul ginocchio destro, passa per le spalle, terminando nel disco sollevato in alto dalla mano destra; il capo dai capelli corti e ricciuti è rivolto verso il braccio che lancia. Tutto ciò forma una costruzione geometrica, che raffigura un semicerchio e un doppio triangolo; il volto esprime, invece, misurata e tenue concentrazione, determinazione e intelligenza; è stato però fortemente criticato da Plinio il Vecchio nella “Naturalis Historia”. Pecca della statua è la concezione esclusivamente frontale: guardato di profilo, il corpo risulta eccessivamente schiacciato su un unico piano; novità sul piano scultoreo è, invece, il mutamento della concezione di equilibrio, dal momento che non vengono più eliminate le forze e le tensioni, ma vengono controllate attraverso un equilibrio di forze uguali e contrarie. Il Diadumeno è, invece, una statua del 430/425 a.C. e raffigura un atleta che si stringe una benda, la tenia, intorno alle chiome dopo la vittoria di una gara; peculiari sono la geometrizzazione figura, la sua accurata ponderazione e la struttura chiastica. Le braccia allargate tengono i due capi del nastro e nel volto vi è ricercata riflessività; il baricentro della figura, inoltre, cade al centro delle gambe e il dinamismo trattenuto annulla ogni impressione di staticità. La statua non è più un oggetto frontale, ma un volume che si articola e si muove in tutto il suo spazio tridimensionale.
IMPORTANZA
Le Olimpiadi rivestivano una grandissima importanza nel mondo antico. Esse avevano un ruolo fondamentale al punto che il calendario greco prese le mosse dalla data delle prime Olimpiadi (776 a.C.); fu lo storico Timeo da Tauromenio, nelle Όλιμπιονίκαι a fissare per primo su base scientifica una precisa cronologia per la storia, introducendo l’uso di datare gli eventi storici e letterari in base alle Olimpiadi nelle quali si erano verificati; questo metodo di datazione fu recepito da molti altri, per esempio da Eratostene di Cirene, terzo bibliotecario della biblioteca di Alessandria, che compilò anche un elenco di vincitori nelle gare olimpiche (Όλιμπιονίκαι), e da Polibio. Con il termine Olimpiade, infatti, letteralmente, si intende il periodo di quattro anni che intercorre tra un’edizione e l’altra dei Giochi.
Le Olimpiadi rivestivano una grandissima importanza nel mondo antico. Esse avevano un ruolo fondamentale al punto che il calendario greco prese le mosse dalla data delle prime Olimpiadi (776 a.C.); fu lo storico Timeo da Tauromenio, nelle Όλιμπιονίκαι a fissare per primo su base scientifica una precisa cronologia per la storia, introducendo l’uso di datare gli eventi storici e letterari in base alle Olimpiadi nelle quali si erano verificati; questo metodo di datazione fu recepito da molti altri, per esempio da Eratostene di Cirene, terzo bibliotecario della biblioteca di Alessandria, che compilò anche un elenco di vincitori nelle gare olimpiche (Όλιμπιονίκαι), e da Polibio. Con il termine Olimpiade, infatti, letteralmente, si intende il periodo di quattro anni che intercorre tra un’edizione e l’altra dei Giochi.